CARTAGENA
E ALTRE MAGIE D’AMORE
Ci
amammo a Cartagena, la terra degli aranci e i pesci –spada,
delle
sierre rosse e infuocate, delle grate saracene alle finestre.
Là,
l’amore è selvaggio e ineffabile,
e
il sole ha la truce intemperanza
dell’arabo,
del toro, del mare in tempesta.
Sostammo
nella piazza del porto,
in
una danza di spezie e tamarindi,
di
gamberi fritti e palme sciolte al vento,
di
rauche chitarre e di ispaniche taverne.
Ma
andiamo, anima mia,
Cartagena
non ci aspetta più,
e
il tuo cappello di panama solitario sotto la pendola
ha
l’odore di vicoli del sud lenti e selvaggi,
di
ostriche d’argento spalancate e arrese.
Andiamo,
già pesa nel cuore
questo
amaro di gomma e resina crepitanti,
questa
dolce tristezza di canestri bruciati.
Ora
non so più darti rime celesti e colte,
né
un fraseggiare etereo e astuto
che
accenda nel tuo cuore
una
fiaccola d’oro ed alabastro.
Posso
soltanto con rime rudi
farti
sentire l’eco delle mie lontane risa innamorate
percorrere
impazzite le nostre strade moresche.
Lascia
dunque che io sia
l’ultimo
poeta di Cartagena,
coi
piedi che soffrono in scarpe troppo strette,
colui
che fiutava l’odore di magie d’amore
che
usciva dalle case nei meriggi ardenti,
colui
che ha nel cuore nacchere e mantiglie,
colui
che ha negli occhi
il
bagliore appannato del toro nell’ora della morte:
perché
è Cartagena la mia estasi alata, e lunga, e oscura,
regina
amara dei miei giorni che volano e volano
come
i suoi mulini all’alba,
folli
di vento
e
di perduto amore.