spunti
per il terzo trattato sulla “computerart” visitando:
“PENSIERI VISIBILI DI UNA COPPIA AL LAVORO”
alla Galleria Poggiali e Forconi di Firenze dal 19 aprile al 19 luglio 2008
Achille Bonito Oliva presenta J&Peg, due giovani artisti in un combinato
tecnico all’insegna delle nuove tecnologie nell’arte.
Prima parte: I TELERI
Il 19 aprile 2008 si è inaugurata, presso la Galleria Poggiali e Forconi di
Firenze, “Working Mates”, prima mostra personale di J&Peg.
La sigla J&Peg, quasi un logo, inventato dal duo Antonio Managò e
Simone Zecubi, la dice lunga nel richiamare immediatamente uno dei più usati
formati per il salvataggio delle immagini nella fotografia digitale, JPEG (Joint
Photographics Experts Group) appunto, standard per la compressione delle
immagini fisse.
Una dichiarazione, la loro, di adesione al settore globalizzato e
globalizzante dell’arte visiva - ahime! forse destinato ad intristirci un
po’ - al quale la maggior parte delle nuove leve sembra volersi rivolgere
confidando nella utilizzazione sempre più spinta delle nuove tecniche
digitali per la produzione e l’elaborazione di immagini nella speranza di
accelerare il loro ingresso in un appetibile mercato.
E questa dichiarazione d’intenti, nel loro inconsueto e articolato processo
creativo, è avvalorata anche dai numerosi neologismi dall’inglese che
accompagnano la loro documentazione: un vezzo, una chiara dichiarazione di
“non appartenenza” a quella arte che è rimasta appannaggio – forse – di
pochi irriducibili nostalgici, quella della pittura vera, “di pennello”,
della pittura di sempre, quella che lo stesso Bonito Oliva già negli anni
settanta provava – con indubbi risultati di mercato – a traghettare nella
museologia battezzando il gruppo della transavanguardia, peraltro ben
presente nei programmi della Poggiali e Forconi che ha recente concluso una
mostra di Enzo Cucchi.
Una decisa presa di posizione, dunque, quella del “duo” che testimonia con
forza l’apertura nuova dell’arte di ricerca di oggi al “ tutto è
ammissibile”, meglio se condito da comode “scorciatoie” tecnologiche che
partono comunque da una complessa progettazione.
"Working Mates", coppia al lavoro come li ha definiti Bonito Oliva o meglio,
direi io, compagni di gioco, tanto sembra un grande gioco quello che i due
compagni praticano con loro sicuro godimento e con la volontà chiara di
trasmettere ai visitatori il loro inesauribile desiderio di giocare. Sì,
giocare con le regole della prospettiva, del colore, della luce. Proprio
alla magia della luce si appella totalmente il loro lavoro, a quella luce
che, in ultima analisi, rompendo il buio fitto nelle tenebre di un infinito
senza misure e forme, improvvisamente svela il mondo degli oggetti,
appagando, alla fine, i nostri sensi.
Entrambi vivono e lavorano a Milano uno dei pochi “luoghi deputati” per
l’arte contemporanea in Italia. I loro lavori mostrano le qualità e le
abilità proprie di due tra le fondamentali scuole di una Accademia di Belle
Arti: sono infatti entrambi diplomati all’Accademia di Brera: Antonio Managò
proviene dalla scuola di scultura e Simone Zecubi da quella di scenografia.
Le sostanziali differenze curriculari delle due scuole emergono, anche se
sorrette dall’ humus comune dell’insegnamento accademico, ma si rivelano
complementari in un progetto avanzato di ricerca artistica, decisamente
originale, attuale.
A questo proposito bisogna dare atto a Poggiali e Forconi di portare avanti
un tentativo di indubbia qualità per portare fuori dal gretto provincialismo
questa nostra contraddittoria città di Firenze.
Per la mostra, curata da Achille Bonito Oliva, sono stati organizzati due
spazi: la sede storica della galleria fiorentina in via della Scala ed il
laboratorio nella vicina via Benedetta, al 3 /rosso, recentemente
trasformato in project room.
Per ora mi soffermo al primo spazio dove sono esposte quindici opere inedite
di grande formato, quello della sede storica della galleria fiorentina in
via della Scala, dove fanno bella mostra quelli che mi pare appropriato
definire i “teleri” di J&Peg: con “a day at Luna Park” ( fotografia e
acrilici su pvc) si raggiungono i 220x320 cm. Misura considerevole per un
trasporto digitale su materiale flessibile intelaiato che sfida il target
della stampa industriale e da cartellonismo, ma la qualità delle
riproduzioni digitali è sicuramente eccellente.
Nelle opere di J&Peg, strani personaggi improbabili, spaventa-passeri e
clown, fissati in atteggiamenti ed ambientazioni simboliche, compiono gesti
in condizioni improbabili. Indipendentemente dal soggetto raccontato o
dall’oggetto passivamente proposto nel suo edonistico perfezionismo formale,
prevale in modo assoluto la tecnica utilizzata, principale valore del loro
fare.
Determinante nel loro raccontare è l’uso del modello vivente, persino il
pretestuoso uso del nudo o degli objects trouvès. Personaggi mostrati con
l’iperrealismo di “costruzioni” fotografiche ad alta definizione, si muovono
in ambientazioni al limite del surreale, corredate da frammenti
architettonici, entro una ambientazione determinata da fondali neri,
utilizzati a ricreare le condizioni fisico - ottiche del “corpo nero” che si
accende alla forma ed al colore degli oggetti collocati, grazie ad una
sapiente illuminotecnica.
I lavori di J&Peg sono il risultato di un processo lungo e complesso, fatto
di costruzioni materiali di modellini e piccoli set semicinematografici,
scatti fotografici e interventi pittorici.
La costruzione del set “ci permette a priori di avere una visione completa”,
affermano i J&Peg, “ci dà la possibilità di studiare e modulare la luce su
ogni singolo oggetto fotografato …. vediamo il nostro lavoro come la fusione
di due tecniche che provano una forte attrazione l’una verso l’altra e come
due veri amanti si uniscono”.
L’uso della pittura nel bilancio globale del loro lavoro appare però
pretestuoso, a meno che per pittura non voglia intendersi in effetti il
risultato finale dell’immagine piana riprodotta sul “telero” e non soltanto
i timidi interventi a pennello che si annullano nel preponderante formalismo
fotografico.
Achille Bonito Oliva, nel bel catalogo curato da Lorenzo Poggiali, non
tralascia l’occasione per regalarci, come sempre, profondi ragionamenti sul
senso dell’arte oggi e questo, credo, sia tra i meriti più tangibili del
critico d’arte. Vero è che in questo saggio su J&Peg, per certificare questa
coppia d’arte vocata alla globalizzazione, ha scomodato molti riferimenti
importanti e curiosi, da Paul Klee a Bosch e Caravaggio, da Baudelaire al
mago di Oz e all’immancabile Warhol. Sicuramente ha scritto nel suo solito
modo convincente e documentato per garantire a J&Peg un qualche ingresso nel
sistema dell’arte, quello da lui preannunciato e via via codificato, dalla
transavanguardia in poi.
Bonito Oliva osserva, tra l’altro: “… Naturalmente qui il Bello è volutamente
costruito. Rinvia sempre ad un altrove reso possibile dalla riproduzione
tecnologica, ma anche corretto dalla manualità artigianale. La convivenza
dei diversi media tra di loro permette una iconografia che vive ai confini
tra enigma e senso esplicito. Qui l'arte sembra confermare un'inedita
vocazione, quella di essere una sorta di Bocca della verità che non ci parla
con sentenze ambigue e oscure, ma piuttosto illustra il bisogno dell'uomo di
marcare limiti psicologici e sociali. Per farlo J&Peg utilizza sul piano
della comunicazione la familiarità fruitiva che proviene al grande pubblico
dal cinema, la fotografia, il teatro e la virtualità dei giochi interattivi
…”
Riccardo
Saldarelli
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