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SEZIONE E - RACCONTO INEDITO

FIORINO D’ORO
FLORA BANCHETTI

per il racconto

“IL VESTITO”

con la seguente motivazione:

La ricchezza e la proprietà di linguaggio, il periodare sicuro ed omogeneo, il sapiente uso della punteggiatura, consentono all’autrice di delineare un personaggio che somiglia tanto ad una sorta di petroliniano Gastone moderno, borioso e petulante quanto mediocre e superficiale, colto da dubbi ed incertezze - ed è questa la differenza attuale dallo storico Gastone - che lasciano il lettore incerto sul suo futuro.

IL VESTITO

Mi sta succedendo una cosa strana. Da un po’ non sono per niente soddisfatto di me stesso senza poterne rintracciare la ragione. Questa preoccupazione mi logora talmente i nervi, che ne risente persino la mia salute. Ho infatti spesso mal di testa, non dormo più come prima, digerisco male… E poi, a volte, all’improvviso, quando meno lo aspetto, una strana paura mi prende, oscura, irragionevole, che mi sconvolge sino a darmi persino palpitazioni. Ma se dovessi dire il perché di tutto questo io non saprei proprio dire. Comunque la nota di fondo di questo disagio è una impalpabile ma lancinante insoddisfazione di me. Ế una cosa davvero paradossale, questa, perché, sino a pochi giorni fa, io ero molto soddisfatto di come sono; la mattina mi alzavo sereno, sempre in piena forma, se pensavo al giorno prima lo rivisitavo con soddisfazione e il domani me lo programmavo con grande sicurezza e compiacimento. Almeno riuscissi a ricordare quello che ha determinato questo sconvolgimento! Che cosa mi sarà accaduto…Io cerco.. cerco…
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Passano i giorni ma la faccenda non si aggiusta per niente, anzi si aggrava. Ormai ho capito che, di sicuro, ho sbagliato qualcosa. Se approfondisco l’indagine per impressioni invece che col raziocinio, ho la sensazione di aver fatto un grave errore di calcolo. Quando e dove, non lo so. Se riesco ad afferrare la sensazione più profonda e cerco di capire attraverso metafore, vedo la mia anima come un’ossatura e, il mio stile di vita, lo vedo come un vestito che io vi abbia cucito sopra, con grandissima cura, punto per punto.
Quel senso angoscioso di paura mi nasce dal sospetto che io abbia sbagliato le misure perché quel vestito, è come se mi diventasse stretto all’improvviso col pericolo che, scucendosi, mi potesse cadere di dosso lasciandomi nudo. Io non capisco. O non mi era andato bene sino ad ora? Io ero soddisfatto di me, ed era la società stessa a darmene il consenso. Io sono un uomo arrivato, un uomo di successo, apprezzato da tutti umanamente e socialmente. Sono stimato, amato e ricercato da uomini e da donne e non vedo la ragione di cambiare il vestito, sia stile di vita, sia maschera, sia personalità; perché in società mi calzava a pennello e mi rendeva bene. Nel mio ambiente io mi sono sempre trovato a mio agio. È vero che gli ambienti me li sono cercati sempre tra gente un po’ più sprovveduta di me, perché io sono un tipo che vuole emergere, essere di più, sapere di più (sono molto orgoglioso). Le persone che frequento sono quasi sempre perdigiorno, ignoranti come zebre, ma di condizione sociale alta con coorte di leccapiedi meno abbienti, sempre all’avanguardia in cianfrusaglie e orpelli; oppure sono personaggi indaffarati a fare soldi con grande talento per l’economia e la politica, ma quasi sempre negati alla spiritualità, alla cultura e alle cose dell’arte. In questa società è chiaro che io brilli, tra loro, come un faro. Essi sono attratti dal mio sapere, dal mio senso estetico, dal livello di conversazione che offro loro. Accettano a occhi chiusi i miei suggerimenti, si sentono lusingati della mia amicizia e fanno a gara ad offrirmi le loro case ben frequentate, i viaggi sulle loro imbarcazioni, le vacanze in villa, ben felici di ornarsi della mia persona. Esagerando (ma questo mi piace) essi mi considerano un genio e mi attribuiscono cultura e conoscenza assai di più di quanto io ne abbia. Per esempio, quando mi vogliono far conoscere gente nuova, mi presentano in modo addirittura imbarazzante (io sono molto riservato) sul tipo “Ecco una bella mente”oppure “Ti voglio presentare un intellettuale che la sa lunga”. In realtà nella vita, se devo essere sincero, non è che io abbia combinato gran che. Intanto non ho bisogno di lavorare perché ho una piccola rendita che mi viene dagli affitti di poche case in centro, ereditate da mia madre e quindi non sono obbligato, dalla necessità, ad esercitare un mestiere vero e proprio; al massimo posso scrivere qualche articolo di bonaria cronaca mondana, e, a volte (ma raramente), scrivo qualcosa di costume, sì, non faccio gran che; ma studio molto e leggo e mi aggiorno. È vero, la mia cultura è di superficie, ma vasta e di buon livello (io poi ho grande senso estetico e un buon gusto innato). E poi, abile come sono ad avvalermene, della cultura, (ho una memoria di ferro ed ho citazioni di prim’ordine da esibire per ogni situazione) riesco in ogni momento a tenere alto il mio prestigio di intellettuale colto e raffinato. Da chi ha vera passione per uno studio serio in una direzione sola, io sarei attratto. Ma me ne sto alla larga perché nell’eclettismo trovo maggiori soddisfazioni e poi non mi piace il ruolo secondario dell’allievo; preferisco fare il maestro con chi sa meno di me. Adesso però l’insicurezza che mi attanaglia l’animo mi toglie ogni piacere di compiacermi di me stesso. Sono in crisi profonda.
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Vedo bene che è impossibile liberarmi da questo inquietante problema. Anzi, sta diventando addirittura angoscioso ora che invade i miei giorni e le mie notti mentre continuo a cercare ossessivamente il momento che ha scatenato questo malessere. Insieme alla preoccupazione, poi, mi cresce dentro l’ansia di valutare obbiettivamente chi sono, chi ero, come sembro agli altri, confrontandomi con la mia vera natura, in una continua revisione (mai attuata prima di ora) tra l’essere e l’apparire al mondo, quasi che, definendomi con chiarezza, tutto possa ritornare come prima. Ma non è così. Io soffro sempre di più. Intanto cose nuove affiorano alla mia coscienza, chiare, anche se, senza averle rilevate a nessuno, io le so da tempo. Sono debole, si, e quasi femmineo nella passività che dimostro ad adattarmi alle situazioni; ma proprio per questo sono anche forte di una plasticità che aderisce prontamente ad ogni situazione. Sono un mediocre, sì, un mediocre e un ipocrita se si guarda a fondo, ma quando uno ha stabilito che è un mediocre e possiede un’ambizione pari alla mia, bisogna pure che ricorra all’ipocrisia -è una legge matematica- mediocrità, più ambizione, uguale ipocrisia. Quando siamo in chiaro con noi stessi, la coscienza si adatta e l’operazione non presenta alcun rischio. Anzi, una volta entrati nel gioco, è facile e divertente fare l’ipocrita, se lo fai con grazia, tanto che io, nel lungo uso sono addirittura diventato maestro. Forse che uno deve dimostrare a tutti la propria mediocrità quando vuole avere successo? Ma via! Travestirsi deve, crearsi uno stile, una facciata bella, deve saper rivestire il proprio essere mingherlino con abiti sontuosi o, per lo meno, di buon taglio, gradevoli, eleganti, moderni, che lo facciano apparire migliore. I dèficit che hai, le debolezze, non devono mai affiorare, ti indebolirebbero. Si sa che, dai complessi di inferiorità non è nato mai niente di buono. Se vuoi importi nell’informe, nebulosa indeterminatezza della vita, devi mostrare sempre di credere in te, nella tua intelligenza, nelle idee che professi, nelle cose che dici. Se vuoi vincere nel mondo, devi imparare a venderti bene. E il mondo ti comprerà per come ti vendi.
A dire il vero, poi, io non ho soltanto quei ricchi ingenui, per amici. Tengo pure amici quasi sempre più giovani di me, squattrinati ma con molte ambizioni, intelligenti ed avidi di sapere e di vincere. Essi mi cercano, pendono dalle mie labbra e non mi mollano mai. Per loro sono un maestro, un luminare, ma pure un grande padre o un fratello più grande. Stanno sempre intorno a me come una piccola corte e molti me li invidiano. Mi danno, pure loro, si, molta soddisfazione. Devo ammettere comunque che io il mio lavoro lo faccio bene e vi impegno tutte le mie risorse, il mio tempo, l’intelligenza che ho, la mia passione, per poter ampliare le mie cognizioni e la mia credibilità. Leggo e studio infatti i libri più in voga mantenendomi sempre all’avanguardia; mi occupo di cinema, di fotografia, di arte, di filosofia, anche se, personalmente non brillo in nessuna scienza e in nessuna arte. Per la psicologia, invece, ho un talento speciale, ho le antenne, una specie di intuito innato che mi rende palese ogni oscurità dell’animo altrui, utilissima nei rapporti con gli altri e che, addirittura, può essere agli altri di aiuto. Ma basta! Non voglio più pensare a chi sono e chi non sono; mi stanco troppo e voglio distrarmi. Mi hanno offerto dieci giorni in Sardegna. Parto stasera. Chi sa che là, io non ritrovi la pace.
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La vacanza non mi ha giovato per niente. Tutti si sono accorti che dovevo avere un problema personale, perché spesso ero silenzioso e assente. Il padrone di casa, battendomi una mano sulla spalla amichevolmente mi ha detto “Se hai bisogno di soldi….”; qualcuno ha ipotizzato che io sia innamorato. Ma figurati! Io di amore ne parlo abbondantemente e da esperto, anzi fa parte della mia filosofia “ama e il mondo ti restituirà amore”; ma l’amore io, francamente non so cosa sia. Né voglio saperlo. Io amo soltanto il sesso mio che, appassionatamente, puntualmente, coltivo e appago. Dio ce ne scampi dall’amore come sentimento! L’amore è roba da donne e a loro conviene. Ma io sono VIR, sono uomo che deve stare aperto a tutte le avventure. Se amo qualcosa fuori di quello, amo la mia libertà e adoro la mia indipendenza da singolo. Se poi aggiungi che, per temperamento, appena la donna l’ho avuta, non mi interessa più, di che me ne farei io di averne una sola?
Però le donne mi piacciono, mi piacciono, mi piacciono… Ed io a loro. Nella struttura fisica sono alto e atletico, ma non ho mai pensato di essere bello. Eppure loro mi trovano attraente, misterioso, affascinante, seducente…La seduzione, è vero, la conosco bene, per istinto; e la psicologia mi rende vincente anche con le più difficili. Diciamo che un po’ più difficoltoso è liberarsi di loro. Ma sono abilissimo a tradurre presto la loro delusione in amicizia eterna. Una sola, una volta, una sentimentale immatura (il tipo da principe azzurro) diversi anni fa tentò il suicidio. Ma io non mi sentii responsabile. Non era colpa mia se lei era sentimentale e immatura. Devo poi ammettere che non tutte le donne mi attraggono. La donna passiva ad esempio, la vittima predestinata, quella senza guardiano al masochismo, la succube, la poverina, non mi accende. Della donna io voglio la conquista, la lotta, il lavoro della seduzione che mi porti alla vittoria finale. Adoro le fatiche della seduzione, perché è questo che principalmente mi affascina. Io non posso rinunciare all’aggressività intelligente e scaltra che occorre per la conquista della femmina che ho scelto, e una donna debole, che cede subito, non mi dà esca. Lo stesso effetto me lo fa la donna mascolina, energica. Nella sessualità non mi piace essere dominato o manovrato. Ho bisogno di organizzare e di condurre il gioco a modo mio. Con la donna sensuale invece, a cui piaccia la battaglia d’amore, io ho tutte le armi affilate, le occhiate, i silenzi, i ripicchi, i dispetti, l’aggressività e la freddezza e l’arte del possesso brutale che me la rendono vinta. Ma l’esperienza che più mi attira è con la donna romantica. Per lei ho proprio una inclinazione naturale e quindi un arsenale di risorse. Con lei non parlo che di poesia, di fiori, di musica, di fragilità dell’essere,di mistero della vita,di tempo perduto per sempre. E sospiro con lo sguardo smarrito nel vuoto e divento sensibile, tenero, buono (del resto io sono buono). Con lei sono attento a tutto. Se un insetto cade in un bicchiere d’acqua davanti a lei, io lo salvo ponendolo delicatamente all’asciutto sulla mia manica e con parole tenere, sommesse, lo incito a volare via. E l’ascolto rapito quando mi parla di sé giovinetta e ancora voglio sapere e ancora sapere… E mi mostro cupo e dolente quando mi parla ingenuamente di un lontano amore con l’evidente intento di ingelosirmi, e per un po’ faccio il geloso, molto, molto bene. E canto, si, canto anche, e la mia voce che è calda e profonda, trova gli accenti più appassionati. Ế alla luna che canto, davanti a paesaggi notturni, dolcemente, tra i capelli di lei; o di amori tristi senza speranza canto, davanti al mare, quando la sera cade dalle dita di un tramonto rosato. Le parole delle canzoni sono spesso viete, banali, ma efficaci. E, mentre canto, gli occhi mi si riempiono di lacrime, perché piango, sì, piango e non di lacrime finte; perché io sono davvero un po’ commosso e triste. Posso dire di me, senza falsa modestia, di essere, qui, veramente eccelso, perché io sono e sarò sempre, come il momento vuole che sia.
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Finalmente!... Finalmente stanotte sono riuscito a rintracciare il momento in cui sono precipitato in questa situazione infernale. Sì, credo che tutto sia nato due mesi fa, in quella notte dell’agosto scorso, mentre rientravo con un amico da una festa nella villa di X. Ci eravamo tanti divertiti ed eravamo su di giri e un po’ brilli. Guidava un piccolo della mia corte, un ragazzo intelligente, ambiziosissimo ma squattrinato, fissato sui motori, a cui permetto di guidare, ogni tanto, la mia Porsche decappottabile. Ricordo che cantava a squarciagola una canzone molto ritmata battendo con veemenza il tempo col pugno sul volante. Io stavo seduto accanto a lui in silenzio, la testa appoggiata all’indietro a guardare il cielo. Ad un tratto ebbi la strana sensazione di stare fermo, come appiccicato all’asfalto, nonostante il vento mi scompigliasse i capelli per la grande velocità. Ricordo il ronzio del motore, sordo, monotono, insistente, mentre guardavo in alto con attenzione le stelle. E immenso e alto mi parve all’improvviso il cielo e la luna ferma e severa, chiara come non mai, e paurose mi parvero, e spietate, le stelle e il buio della notte, trasparente e fondo, sul quale mai prima mi ero soffermato, per la prima volta mi apparve inesorabile e pauroso. Spalancai gli occhi per lo spavento. E fu proprio allora, in quel fatidico appropriarmi del cielo in modo nuovo, che io mi sentii piccolo, piccolo, insignificante, mi vidi come un insetto, un povero pidocchino che, insieme ad altri, arrancava in salita, senza scopo alcuno, per le strade di questa immensa testa della terra, un insettino ignaro di essere egli nulla in confronto al cielo, nulla in confronto all’universo. Contemporaneamente mi fu dolorosamente chiara la brevità della mia esistenza e i secoli li vidi scorrere rapidi come respiri. Sentii d’un subito, con forza, che presto sarei scomparso dalla faccia della terra e, come me, tutti quelli che conoscevo, tutti insieme in cammino verso il nulla, tutti condannati a morte, ineluttabilmente, irremovibilmente mentre le stelle lassù sarebbero rimaste, vive, eterne, testimoni indifferenti del nostro inutile, fugace vivere. Un senso tragico mi prese per il destino dell’uomo e vergogna insieme per la vita che conduciamo, tutti, tutti, sprecata a concludere affarucci, ad arraffare cose effimere, affaccendati ad ingannarci, a prevaricarci, a sfruttarci a vicenda, illusi di valere, tutti indaffarati a soffrire e gioire di passioni che non servono a nulla, sempre le stesse da che mondo è mondo, impegnati tutti a vivere stupidamente, ingenuamente, vite che non servono a nessuno, e a morire senza lasciare traccia alcuna del nostro essere vissuti che sia di aiuto a chi resta. Nel tempo di un fulmine ebbi chiaro il senso vero della vita. Fu allora che vidi vuoto ed inutile tutto ciò che avevo in vita vagheggiato. Vidi gretto e ridicolo ciò che avevo creduto elevato e importante e di colpo mi sentii nudo, non più vestito di apparenze, nudo ed inerme sotto le stelle, schiacciato dal senso del finire. Mi fu chiaro in modo dolorosamente tangibile che tutta la fatica e le astuzie che avevo adoperato per cucirmi addosso un abito confacente al mondo erano state inutili. Quel vestito non mi rappresentava nel vero. Forse non mi aveva mai rappresentato nel vero. Io avrei potuto essere altro.
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Ora che ho visto chiara la causa della mia crisi, mi sono calmato. L’angoscia è sparita. Né vergogna né dolore mi opprimono più, sono rinato. Anzi direi che sono più forte e più ricco di prima. Ma ora dovrò scegliere se rifarmi un vestito nuovo che più consono alla mia vera natura (ora che ne ho afferrati i lembi più profondi) o se devo adattarmi alla veste che ho sempre portato tornando quello che ero prima. Dovrò scegliere. Ma ce la farò a scegliere per il meglio? E sarà possibile rifarsi un vestito nuovo a cinquant’anni? Io poi sono pigro e non mi piacciano affatto i cambiamenti… Nel cambiamento possono esserci vantaggi, è vero, ma pure dei rischi. Nella ripetizione invece non ti arricchisci, ma un livello minimo di stabilità è assicurato…
Non so come finirà tutto questo. Non è da escludere che mi porti al suicidio. Se mi dovessi decidere, il mio orgoglio mi suggerisce una morte clamorosa, degna di me. Forse vorrò il sangue, il sangue mio che schizzi dalle vene recise sui muri e inondi il mio letto di colore vermiglio… O forse un volo dal terrazzo di casa mia… al sedicesimo piano… giù ad angelo… per finire spappolato sul marciapiede… Di certo farò in modo che almeno una donna si senta responsabile della mia morte, perché la mia tomba sia sempre piena di rose.
Perché mi piacciono le rose…
Si…
Mi piacciono le rose.

     

   

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