LE SANGUISUGHE
Il padrone, burbero e
severo, la chiamava con voce tonante e la bambina accorreva con
trepida ansia.
Le richieste del
padrone erano sempre impellenti e lei non sempre sapeva o capiva
come doveva esaudirle. Aveva molta paura del padrone. Lui non le
aveva fatto mai niente di male, ma lei lo temeva, forse perché, per
la gente come lei era scontato temere i padroni.
L’unica cosa che
faceva volentieri per il padrone era andare alla fontana a prendere
l’acqua: le piaceva uscire dalla grande casa dove, a volte, si
sentiva un po’ prigioniera.
Alla fontana,
inoltre, spesso c’era gente e lei era costretta ad aspettare che si
riempissero prima le grandi brocche di terracotta delle donne.
Aspettava volentieri, la bambina, perché era curiosa. Si guardava
intorno e soprattutto ascoltava i discorsi che le donne facevano
intanto che l’acqua scendeva rumorosamente nelle brocche dal collo
largo.
Era alla fontana che
la bambina aveva appreso che la terra dove viveva si chiamava
Calabria, che era una terra povera dalla quale molti volevano andare
via e che per andare via bisognava prendere il treno.
Alla bambina sembrava
impossibile che si volesse lasciare quel paese, anzi lei non aveva
mai pensato che ci fossero altri posti al mondo, né che si potesse
vivere meglio. Però le donne alla fontana parlavano sempre di uomini
che avevano preso il treno, per andare in posti lontani, dai nomi
sconosciuti, e che non erano mai tornati.
La bambina, quando le
donne parlavano le guardava incantata, giurando a se stessa che mai
sarebbe salita su un treno, perché lei non voleva lasciare quel
paese, che fino a poco tempo prima aveva creduto fosse l’unico al
mondo, ed inoltre non voleva andare in posti sconosciuti dai quali
nessuno era mai tornato.
Come facevano le
donne ad affermare che erano posti bellissimi, pieni di lavoro e di
ricchezza, se
nessuno era mai
tornato? E poi perché andare tanto lontano a cercare lavoro? Lei
lavorava tutti i giorni per il suo padrone e non era sempre
contenta, qualche volta avrebbe preferito giocare…ma di lavoro a suo
parere ce n’era fin troppo. La bambina non capiva!
Le donne, quando la
brocca era piena, interrompevano i discorsi, la sollevavano da
terra, con una mossa flessuosa del corpo, e l’appoggiavano sulla
testa, dove avevano messo uno straccio arrotolato a se stesso che
chiamavano “corona”.
La bambina non aveva
mai una brocca così grossa: il padrone voleva l’acqua sempre fresca
per bere o per lavarsi e la mandava con una brocca tanto piccola
che lei si vergognava, o con la caraffa del
catino, che era un
po’ più grande, ma che lei non osava portare sulla testa per il
timore di romperla e
che, in ogni caso,
non era grossa come le brocche vere, quelle delle donne grandi.
Le donne, con in
testa la corona e la brocca, camminavano spedite e sicure con
un’inconsapevole
portamento da
regine. Quelle regine che avevano la corona vera e non di stracci.
La bambina non capiva
la bellezza di questo portamento sicuro e altero, ma intuiva che il
loro modo di camminare nascondeva qualcosa da grandi, la sensualità
certamente, ma la bambina non lo percepiva, notava, forse, di più la
sicurezza che il passo spedito esaltava.
La sicurezza. Era
questo che lei invidiava, la sicurezza. Proprio come tutti i bambini
che credono i grandi sicuri di tutto, e soprattutto sicuri di se
stessi.
Alla fontana le
chiedevano spesso come era trattata nella grande casa e la
invitavano a riempire per prima la piccola brocca, pensando che
altrimenti il padrone l’avrebbe picchiata. Quando la bambina
assicurava di non essere mai stata picchiata, tutti si stupivano e
lei, che si sentiva privilegiata e fortunata, insisteva per stare in
fila, fra la gente della fontana, dimostrando così, di non temere il
padrone e cercando anche di convincere se stessa che il padrone non
era da temere.
Poi si allontanava,
camminando dritta e veloce, cercando di non dimostrare come la
brocchetta o peggio la caraffa del catino, le pesassero tra le
piccole mani.
Aveva mani e piedi
piccoli, braccia e gambe sottili, la bambina, era magra e pallida,
soprattutto pallida, forse i capelli nerissimi creavano un grande
contrasto col visino minuto che spesso, infatti, sembrava cereo.
Un viso illuminato
soltanto da due grandi occhi neri, dolci e pensosi.
Non era magra perché
non mangiava, spiegava la mamma, con orgoglio, era magra perché
correva sempre.
Era vero. Tutti i
comandi del suo padrone lei li esplicava sempre di corsa, perché
sapeva che lui era molto contento di questo e anche perché sperava,
tra un comando e l’altro, di potersi fermare un po’ a giocare.
Il suo padrone era un
uomo grosso e corpulento, con grandi baffi neri e capelli
precocemente bianchi. A lei sembrava sempre molto arrabbiato, ma a
volte, proprio quando tremava all’idea di sentirlo urlare, lui
rideva e, qualche volta, le tirava scherzosamente le trecce. Valli a
capire i padroni, pensava allora la bambina e correva a giocare,
intuendo che era il momento propizio.
Quello che la mamma
diceva del suo mangiare non era del tutto esatto. Certo era vero che
loro erano fortunate perché avevano sempre da mangiare: Avevano
sempre il pane, le olive da far bollire e mangiare col pane, anche
quelle le avevano sempre, ma non era vero che lei mangiava, spesso
faceva finta, perché aveva poca fame, ma anche perché era stanca di
mangiare sempre le stesse cose, soprattutto quando sentiva nella
grande casa c’erano profumi a lei ignoti.
Si sedeva sullo
scalino, fuori della porta, la bambina, con il suo pane in mano e le
olive nella gonnellina, che lei si abbassava tra le gambe, e
annusava l’aria, cercando d’immaginare cosa mangiassero i suoi
padroni , ma non ci riusciva mai.
Ogni tanto però, la
signora la chiamava su in casa e le dava delle cose da mangiare, ma
lei anche mentre masticava, non riusciva a capire di cosa si
trattasse. Non sempre quei sapori le piacevano,
però pensava che
dovessero essere cibi molto buoni, visto che li mangiavano i
padroni; infatti quando chiedeva spiegazioni a sua madre la risposta
era sempre la stessa: “Mangia non so cosa sia ma è mangiare da
signori”.
I padroni non erano
cattivi, anche se raramente pensavano che lei e la sua famiglia
mangiavano sempre solo pane e olive per tutto l’inverno e pane e
pomodori per tutta l’estate.
Non ci pensavano
perché quella realtà era nella normalità delle cose del tempo e del
luogo, in quella stupenda terra assolata e povera, quale era la
Calabria.
Nella grande casa,
oltre al padrone e alla padrona, c’erano le figlie: le signorine.
Una delle signorine
era particolarmente buona e gentile con la bambina pallida dai
grandi occhi pensosi e dai capelli neri. Aveva per lei una
particolare attenzione affettuosa dettata da un innato, quanto a
loro poco frequente, senso di giustizia.
Non trovava giusto,
ad esempio, che la bambina, solo perché viveva nel “basso” della
grande casa, avesse i capelli sporchi e pieni di pidocchi.
Anche i pidocchi,
come le olive d’inverno, i pomodori d’estate e il vivere tutti in
una stanza senza i servizi, facevano parte della normalità del tempo
e del luogo, ma la signorina era l’unica che trovava ingiusto quello
stato di cose.
Per giorni e giorni,
con uno speciale pettine, aveva ripulito i capelli, di un nero
abbagliante, della bambina. I primi giorni la bambina piangeva, sia
perché si vergognava, man mano che prendeva coscienza della
situazione, sia perché sentiva il padrone rimproverare la figlia,
che non avrebbe mai dovuto “mettersi in quella situazione”
assicurandole inoltre che non sarebbe servito a niente poiché tutta
“quella gente” aveva i pidocchi perché non si lavava. Anche la
bambina, quindi, nel giro di poco tempo li avrebbe riavuti, ma la
signorina insisteva, affermando che avrebbe insegnato lei alla
bambina le più elementari norme igieniche.
Così era stato. Fra
lei e la bambina si era creato un forte sentimento di affetto e
solidarietà, la signorina ne era felice e orgogliosa, ma non capiva
che tutto questo aveva fatto sì che la bambina si distinguesse dalle
altre bambine del paese e restasse più sola.
Le altre bambine “sue
pari”, come diceva la mamma, l’avvertivano diversa, troppo strana ai
loro occhi, troppo pulita e non giocavano più con lei, che
d’altronde era impicciata e faceva di tutto per non sporcarsi e
presentarsi sempre in ordine alla “sua” signorina.
Così, quando nessuno
le chiedeva di fare qualche lavoretto, lei si sentiva molto sola e,
qualche volta, se non fosse stato per quel nuovo senso di benessere
al quale si stava abituando, e per la gratificante, confidenziale
amicizia della signorina, quasi sperava di riavere tutti i suoi
pidocchi e meno problemi.
Col passare del
tempo, però, le fu sempre più chiaro che la sua pulizia personale
era una grande conquista anche se la pagava con la solitudine. La
sua gratitudine era palese e commovente e tutto questo aveva creato,
tra lei e la signorina, un rapporto molto insolito per la
“normalità” del tempo e del luogo, un rapporto di complicità, di
amicizia vera che era destinato a durare per sempre.
Ogni tanto nella
grande casa si creava un enorme subbuglio: il padrone si sentiva
male. Lei veniva chiamata a gran voce e doveva correre al fiume.
Correva veloce come
il vento, la bambina pallida e magra dalle lunghe trecce nere.
Correva allo stesso fiume dove la mamma portava i panni da lavare e,
come sua mamma, anche lei all’andata era più leggera che al ritorno,
ma lei non sapeva perché.
La sua mamma portava
i panni sporchi dei padroni in una grande cesta appoggiata sulla
testa ad una corona di stracci. Al ritorno i panni , lavati al
fiume, puliti anche se ben strizzati, pesavano molto di più che
all’andata, inoltre la strada era in salita e lei la vedeva
camminare a fatica, ansante sotto il grande peso.
La bambina, quando la
mandavano al fiume perché il padrone stava male, all’andata correva
come il vento, con i piccoli piedi magri e scalzi, cercando di
evitare i sassi della strada, ma al ritorno ansava anche lei, come
la mamma, pur continuando a correre nella salita che la riportava
in paese.
Al fiume lei non
doveva lavare una grande cesta di panni sporchi. Doveva solo
camminare nell’acqua, non dove c’erano le grandi pietre, levigate,
dallo scorrere frettoloso dell’acqua e dall’uso continuo delle
donne che, sopra quelle pietre, insaponavano e battevano i panni.
Lei si allontanava,
silenziosa, camminando dove il fiume si rimpiccioliva, dove c’erano
delle piccole anse e il canneto. Doveva solo camminare lentamente
nell’acqua più scura.
Quando la bambina
arrivava al fiume le donne sapevano già cosa doveva fare e, ridendo,
la impaurivano, dicendole che qualche volta avrebbe trovato una
“sanguetta” più grossa delle altre che invece di attaccarsi alle sue
caviglie, le avrebbe succhiato tutto un piede o addirittura una
gamba.
La bambina faceva
finta di ridere, di non crederci, ma il piccolo cuore cominciava a
batterle forte forte e lei, per non pensare, contava, nella sua
mente per far scorrere il tempo velocemente e poter andar via con un
congruo numero di “sanguette” attaccate alla sue gambe magre, in
modo che, una volta arrivata a casa, non la rimandassero indietro,
che non la facessero ritornare al fiume, come era successo già una
volta.
Le “sanguette”, così
le chiamavano, nel piccolo paese, erano le sanguisughe. La bambina
doveva lasciare che si attaccassero alle gambe e portarle al suo
padrone. Lì c’era il vecchio medico che aspettava, il quale,
delicatamente le staccava da lei per attaccarle sul collo del suo
padrone.
Lo faceva con una
lunga pinzetta sottile, sempre la stessa. La bambina si chiedeva
dove finissero le sanguette dopo che avevano curato il suo padrone,
ma non aveva mai voluto chiederlo perché aveva paura di saperlo.
Quando tornava dal
fiume con tutte quelle “sanguette” attaccate alle gambe, faceva
fatica ad arrivare a casa, era stanca come se avesse corso per ore.
Li non capiva il perchè, ma sapeva però, che dopo questo “lavoro” il
suo padrone le faceva sempre una carezza e, qualche volta, le dava
addirittura una moneta.
Una moneta che sua
madre le prendeva subito per riporla in una vecchia scatola di latta
che si trovava sull’unico mobile dell’unica stanza dove loro
abitavano. Lei sapeva che presto avrebbe raccontato a tutti quanto
Anna fosse brava, tanto brava da ricevere addirittura dei soldi dal
suo padrone.
La bambina era molto
contenta di questo doppio riconoscimento ufficiale, però ogni volta
che veniva mandata al fiume aveva la stessa paura che esistesse,
nell’acqua scura, una “sanguetta” così grossa da poterle mangiare un
piede.
Il suo “lavoro”,
però, finiva sempre bene, era una gioia per lei sapere che
contribuiva a curare il suo padrone, a farlo star bene, a farlo
tornare di buon umore. Ed era una gioia lo stupore della gente della
fontana, quando sentivano che nella grande casa nessuno l’aveva mai
picchiata.
Si era proprio
fortunata lei a poter stare nella grande casa senza essere mai
picchiata. |