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FIORINO D’ORO

 MARIELLA ARCURI

per il racconto 

LE SANGUISUGHE

 con la seguente motivazione: 

Con una coinvolgente capacità affabulatoria e in uno stile lineare ed appropriato, l’autrice evidenzia la durezza di un’esistenza povera, collocabile nel passato di ogni regione italiana, e le difficoltà per evitarla, inconsapevolmente, anche soltanto un poco.

Significativa, in tal senso, la frase che chiude il racconto: “Sì era proprio fortunata lei a poter stare nella grande casa senza mai essere picchiata”.

LE  SANGUISUGHE

Il padrone, burbero e severo, la chiamava con voce tonante e la bambina accorreva con trepida ansia.

Le richieste del padrone erano sempre impellenti e lei non sempre sapeva o capiva come doveva esaudirle. Aveva molta paura del padrone. Lui non le aveva fatto mai niente di male, ma lei lo temeva, forse perché, per la gente come lei era scontato temere i padroni.

L’unica cosa che faceva volentieri per il padrone era andare alla fontana a prendere l’acqua: le piaceva uscire dalla grande casa dove, a volte, si sentiva un po’ prigioniera.

Alla fontana, inoltre, spesso c’era gente e lei era costretta ad aspettare che si riempissero prima le grandi brocche di terracotta delle donne. Aspettava volentieri, la bambina, perché era curiosa. Si guardava intorno e soprattutto ascoltava i discorsi che le donne facevano intanto che l’acqua scendeva  rumorosamente nelle brocche dal collo largo.

Era alla fontana che la bambina aveva appreso che la terra dove viveva si chiamava Calabria, che era una terra povera dalla quale molti volevano andare via e che per andare via bisognava prendere il treno.

Alla bambina sembrava impossibile che si volesse lasciare quel paese, anzi lei non aveva mai pensato che ci fossero altri posti al mondo, né che si potesse vivere meglio. Però le donne alla fontana parlavano sempre di uomini che avevano preso il treno, per andare in posti lontani, dai nomi sconosciuti, e che non erano mai tornati.

La bambina, quando le donne parlavano le guardava incantata, giurando a se stessa che mai sarebbe salita su un treno, perché lei non voleva lasciare quel paese, che fino a poco tempo prima aveva creduto fosse l’unico al mondo, ed inoltre non voleva andare in posti sconosciuti dai quali nessuno era mai tornato.

Come facevano le donne ad affermare che erano posti bellissimi, pieni di lavoro e di ricchezza, se

nessuno era mai tornato? E poi perché andare tanto lontano a cercare lavoro? Lei lavorava tutti i giorni per il suo padrone e non era sempre contenta, qualche volta avrebbe preferito giocare…ma di lavoro a suo parere ce n’era fin troppo. La bambina non capiva!

Le donne, quando la brocca era piena, interrompevano i discorsi, la sollevavano da terra, con una mossa flessuosa del corpo, e l’appoggiavano sulla testa, dove avevano messo uno straccio arrotolato a se stesso che chiamavano “corona”.

La bambina non aveva mai una brocca così grossa: il padrone voleva l’acqua sempre fresca per bere o  per  lavarsi e la mandava con una brocca tanto piccola che lei si vergognava, o con  la caraffa del

catino, che era un po’ più grande, ma che lei non osava portare sulla testa per il timore di romperla e

che, in ogni caso, non era grossa come le brocche vere, quelle delle donne grandi.

Le donne, con in testa la corona e la brocca, camminavano spedite e sicure con un’inconsapevole

 portamento da regine. Quelle regine che avevano la corona vera e non di stracci.

La bambina non capiva la bellezza di questo portamento sicuro e altero, ma intuiva che il loro modo di camminare nascondeva qualcosa da grandi, la sensualità certamente, ma la bambina non lo percepiva, notava, forse, di più la sicurezza che il passo spedito esaltava.

La sicurezza. Era questo che lei invidiava, la sicurezza. Proprio come tutti i bambini che credono i grandi sicuri di tutto, e soprattutto sicuri di se stessi.

Alla fontana le chiedevano spesso come era trattata nella grande casa e la invitavano a riempire per prima la piccola brocca, pensando che altrimenti il padrone l’avrebbe picchiata. Quando la bambina assicurava di non essere mai stata picchiata, tutti si stupivano e lei, che si sentiva privilegiata e fortunata, insisteva per stare in fila, fra la gente della fontana, dimostrando così, di non temere il padrone e cercando anche di convincere se stessa che il padrone non era da temere.

Poi si allontanava, camminando dritta e veloce, cercando di non dimostrare come la brocchetta o peggio la caraffa del catino, le pesassero tra le piccole mani.

Aveva mani e piedi piccoli, braccia e gambe sottili, la bambina, era magra e pallida, soprattutto pallida, forse i capelli nerissimi creavano un grande contrasto col visino minuto che spesso, infatti, sembrava cereo.

Un viso illuminato soltanto da due grandi occhi neri, dolci e pensosi.

Non era magra perché non mangiava, spiegava la mamma, con orgoglio, era magra perché correva sempre.

Era vero. Tutti i comandi del suo padrone lei li esplicava sempre di corsa, perché sapeva che lui era molto contento di questo e anche perché sperava, tra un comando e l’altro, di potersi fermare un po’ a giocare.

Il suo padrone era un uomo grosso e corpulento, con grandi baffi neri e capelli precocemente bianchi. A lei sembrava sempre molto arrabbiato, ma a volte, proprio quando tremava all’idea di sentirlo urlare, lui rideva e, qualche volta, le tirava scherzosamente le trecce. Valli a capire i padroni, pensava allora la bambina e correva a giocare, intuendo che era il momento propizio.

Quello che la mamma diceva del suo mangiare non era del tutto esatto. Certo era vero che loro erano fortunate  perché avevano sempre da mangiare: Avevano sempre il pane, le olive da far bollire e mangiare col pane, anche quelle le avevano sempre, ma non era vero che lei mangiava, spesso faceva finta, perché aveva poca fame, ma anche perché era stanca di mangiare sempre le stesse cose, soprattutto quando sentiva nella grande casa  c’erano profumi a lei ignoti.

Si sedeva sullo scalino, fuori della porta, la bambina, con il suo pane in mano e le olive nella gonnellina, che lei si abbassava tra le gambe, e annusava l’aria, cercando d’immaginare cosa mangiassero i suoi padroni , ma non ci riusciva mai.

Ogni tanto però, la signora la chiamava su in casa e le dava delle cose da mangiare, ma lei anche  mentre masticava, non riusciva a capire di cosa si trattasse. Non sempre  quei sapori le piacevano,

però pensava che dovessero essere  cibi molto buoni, visto che li mangiavano i padroni; infatti quando chiedeva spiegazioni a sua madre la risposta era sempre la stessa: “Mangia non so cosa sia ma è mangiare da signori”.

I padroni non erano cattivi, anche se raramente pensavano che lei e la sua famiglia mangiavano sempre solo pane e olive per tutto l’inverno e pane e pomodori per tutta l’estate.

Non ci pensavano  perché quella realtà era nella normalità delle cose del tempo e del luogo, in quella stupenda terra assolata e povera, quale era la Calabria.

Nella grande casa, oltre al padrone e alla padrona, c’erano le figlie: le signorine.

Una delle signorine era particolarmente buona e gentile con la bambina pallida dai grandi occhi pensosi e dai capelli neri. Aveva per lei una particolare attenzione affettuosa dettata da un innato, quanto a loro poco frequente, senso di giustizia.

Non trovava giusto, ad esempio, che la bambina, solo perché viveva nel “basso” della grande casa, avesse i capelli sporchi e pieni di pidocchi.

Anche i pidocchi, come le olive d’inverno, i pomodori d’estate e il vivere tutti in una stanza senza i servizi, facevano parte della normalità del tempo e del luogo, ma la signorina era l’unica che trovava ingiusto quello stato di cose.

Per giorni e giorni, con uno speciale pettine, aveva ripulito i capelli, di un nero abbagliante, della bambina. I primi giorni la bambina piangeva, sia perché si vergognava, man mano che prendeva coscienza della situazione, sia perché sentiva il padrone rimproverare la figlia, che non avrebbe mai dovuto “mettersi in quella situazione”  assicurandole inoltre che non sarebbe servito a niente poiché tutta “quella gente” aveva i pidocchi perché non si lavava. Anche la bambina, quindi, nel giro di poco tempo li avrebbe riavuti, ma la signorina insisteva, affermando che avrebbe insegnato lei alla bambina le più elementari norme igieniche.

Così era stato. Fra lei e la bambina si era creato un forte sentimento di affetto e solidarietà, la signorina ne era felice e orgogliosa, ma non capiva che tutto questo aveva fatto sì che la bambina si distinguesse dalle altre bambine del paese e restasse più sola.

Le altre bambine “sue pari”, come diceva la mamma, l’avvertivano diversa, troppo strana ai loro occhi, troppo pulita e non giocavano più con lei, che d’altronde era impicciata e faceva di tutto per non sporcarsi e presentarsi sempre in ordine alla “sua” signorina.

Così, quando nessuno le chiedeva di fare qualche lavoretto, lei si sentiva molto sola  e, qualche volta, se non fosse stato per quel nuovo senso di benessere al quale si stava abituando, e per la gratificante, confidenziale amicizia della signorina, quasi sperava di riavere tutti i suoi pidocchi e meno problemi.

 Col passare del tempo, però, le fu sempre più chiaro che la sua pulizia personale era una grande conquista anche se la pagava con la solitudine. La sua gratitudine era palese e commovente e tutto questo aveva creato, tra lei e la signorina, un rapporto molto insolito per la “normalità” del tempo e del luogo, un rapporto di complicità, di amicizia vera che era destinato a durare per sempre. 

Ogni tanto nella grande casa si creava un enorme subbuglio: il padrone si sentiva male. Lei veniva chiamata a gran voce e doveva correre al fiume.

Correva veloce come il vento, la bambina pallida e magra dalle lunghe trecce nere. Correva allo stesso fiume dove la mamma portava i panni da lavare e, come sua mamma, anche lei all’andata era più leggera che al ritorno, ma lei non sapeva perché.

La sua mamma portava i panni sporchi dei padroni in una grande cesta appoggiata sulla testa ad una corona di stracci. Al ritorno  i panni , lavati al fiume, puliti anche se ben strizzati, pesavano molto di più che all’andata, inoltre la strada era in salita e lei la vedeva camminare a fatica, ansante sotto il grande peso.

La bambina, quando la mandavano al fiume perché il padrone stava male, all’andata correva come il vento, con i piccoli piedi magri e scalzi, cercando di evitare i sassi della strada, ma al ritorno ansava anche lei, come la mamma, pur continuando  a correre nella salita che la riportava in paese.

Al fiume lei non doveva lavare una grande cesta di panni sporchi. Doveva solo camminare nell’acqua, non dove c’erano le grandi pietre, levigate, dallo scorrere frettoloso dell’acqua e dall’uso  continuo delle donne che, sopra quelle pietre, insaponavano e battevano i panni.

Lei si allontanava, silenziosa, camminando dove il fiume si rimpiccioliva, dove c’erano delle piccole anse e il canneto. Doveva solo camminare lentamente nell’acqua più scura.

Quando la bambina arrivava al fiume le donne sapevano già cosa doveva fare e, ridendo, la impaurivano, dicendole che qualche volta avrebbe trovato una “sanguetta” più grossa delle altre che invece di attaccarsi alle sue caviglie, le avrebbe succhiato tutto un piede o addirittura una gamba.

La bambina faceva finta di ridere, di non crederci, ma il piccolo cuore cominciava a batterle forte forte e lei, per non pensare, contava, nella sua mente per far scorrere il tempo velocemente e poter andar via con un congruo numero di “sanguette” attaccate alla sue gambe magre, in modo che, una volta arrivata a casa, non la rimandassero indietro, che non la facessero ritornare al fiume, come era successo già una volta.

Le “sanguette”, così le chiamavano, nel piccolo paese, erano le sanguisughe. La bambina doveva lasciare che si attaccassero alle gambe e portarle al suo padrone. Lì c’era il vecchio medico che aspettava, il quale, delicatamente le staccava da lei per attaccarle sul collo del suo padrone.

Lo faceva con una lunga pinzetta sottile, sempre la stessa. La bambina si chiedeva dove finissero le sanguette dopo che avevano curato il suo padrone, ma non aveva  mai voluto chiederlo perché aveva paura di saperlo.

Quando tornava dal fiume con tutte quelle “sanguette” attaccate alle gambe, faceva fatica ad arrivare a casa, era stanca come se avesse corso per ore. Li non capiva il perchè, ma sapeva però, che dopo questo “lavoro” il suo padrone le faceva sempre una carezza e, qualche volta, le dava addirittura una moneta.

Una moneta che sua madre le prendeva subito per riporla in una vecchia scatola di latta che si trovava sull’unico mobile dell’unica stanza dove loro abitavano. Lei sapeva che presto avrebbe raccontato a tutti quanto Anna fosse brava, tanto brava da ricevere addirittura dei soldi dal suo padrone.

La bambina era molto contenta di questo doppio riconoscimento ufficiale, però ogni volta che veniva mandata al fiume aveva la stessa paura che esistesse, nell’acqua scura, una “sanguetta” così grossa da poterle mangiare un piede.

Il suo “lavoro”, però, finiva sempre bene, era una gioia per lei sapere che contribuiva a curare il suo padrone, a farlo star bene, a farlo tornare di buon umore. Ed era una gioia lo stupore della gente della fontana, quando sentivano che nella grande  casa nessuno l’aveva mai picchiata.

Si era proprio fortunata lei a poter stare nella grande casa senza essere mai picchiata.

 

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